IL DOMENICALE DI R.B./DODICI LETTERE DELLA NOSTRA STORIA



“Il corso d’acqua precipita dappertutto
la città si scontra nella possente onda;
L’uomo finale è molto piccolo,
nell’immergersi per il suo bagno finale”

(After the flood – The least we can do is wawe to each other
Van Der Graaf Generator – 1970)

 

Fine settimana speciale, fine settimana lungo, fine settimana da “ponte”.

camion-ponte-annone-crollato-2-1024x768Già, proprio il ponte, e cos’altro aggiungere che non abbiano scritto, detto e gridato un po’ tutti in questi due giorni? Cos’altro potrei dire a proposito di una tipica storia italiana dove il finale appare sin da ora scontato e riassunto, come è nostra drammatica abitudine, in una sola parola ma di ben dodici lettere, e cioè “rassegnazione”?

Nulla, ma proprio nulla. Per cui lascio libero il campo a chi ne sa più di me. Non che non abbia un’idea su quello che è successo venerdì, solo credo sia poco importante. Penso che nessuno si possa appassionare ad un gioco intitolato ” la strada l’è toa, la strada l’è mia” (e intanto chi muore non è l’ombria), piuttosto, visti i giorni che ci aspettano, meglio lasciare un fiore sul luogo del disastro, ma prima guardatevi bene in giro, mi raccomando.

Risultati immagini per rassegnazioneIl resto lo dovranno sbrigare le “competenti autorità”, e speriamo lo facciano in fretta dimostrando sia competenza, sia autorità.

Oltrepassato così un ponte me ne ritrovo davanti un  altro e comprendo di essere tra l’incudine e il martello.

Constatato di non avere scelta, resto a metà tra il sotto e il sopra e vi racconto una storia vera.

In uno degli spazzacà che il mio cervello custodisce gelosamente, trovo un armadio di ricordi dedicato alla ricorrenza dei morti, alla festa di Ognissanti e al 4 novembre, giorno in cui “i resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo” risalirono “in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza”.  Se cercate bene, un mazzo di questi crisantemi li troverete anche nel vostro di spazzacà.

Ma, ve lo auguro di cuore, non del genere che state per leggere.

Sebbene fossi poco più che un bambino, però, è il 4 novembre che quest’anno è uscito con prepotenza da un cassetto di quell’armadio a dire il vero rimasto sempre socchiuso. Io, pur provandoci in tutti i modi, non sono mai riuscito a metterlo a posto. E non ci riuscirò mai.

Firenze. Fine ottobre 1966. Giusto cinquant’anni fa.

Risultati immagini per alluvione firenze 1966Sto finendo i compiti in cucina. Arriva il socio di papà, il Mario, a salutarci: siamo in partenza, con la 124 beige saliamo su, in Valsassina; a Cortenova ci aspettano, il viaggio è lungo, ma l’Autostrada del Sole lo ha reso più confortevole e meno massacrante. E poi vedremo gli Autogrill, una meraviglia!

Siamo tutti felici, le vacanze, i nonni, la Pioverna, la domenica dopo la Messa al Gnocchi, i grandi l’aperitivo, i piccoli i brutti ma buoni. Siamo tutti contenti, ma, ancora non lo sapevo, sarebbe stata l’ultima volta che avrei fatto i compiti a Firenze. E per quei compiti non avrei mai più preso un voto.

Cortenova, 4 novembre 1966. Un venerdì di cinquant’anni fa.

Piove. Siamo dietro la chiesa a guardar giù la Pioverna. Il cielo è di piombo, le nuvole basse coprono il Palone e tutti i monti attorno, c’è tanta gente in giro come sempre in un giorno di festa, i magli tacciono, le facce dei fusinatt hanno ripreso il loro colore naturale ed ora sono pallide, non più nere di lavoro. Tutti hanno tirato fuori dagli armadi i vestiti dell’inverno; in molti hanno comprato un paltò o un paio di scarpe nuove per la processione di due giorni prima e li hanno ancora addosso. Poi rimetteranno via il paltò assieme alla naftalina, pronto per la messa di mezzanotte.

I magli tacciono, la pioggia cade incessante, il Palone è nascosto. La Pioverna scorre, lo Stoppani in cima al suo monumento sorveglia la piazza incurante dell’acqua che lo avvolge, il tricolore tenta di sventolare sul balcone del comune. Tempo di novembre, tempo di santi, tempo di morti.

Il Claudio vede una salamandra scivolare via sull’asfalto. “Porta male”, dice.

Infatti.

Torniamo a casa in Brigolda e dopo un po’ squilla il telefono.

Dall’altra parte c’è la tragedia, c’è l’acqua che tutto travolge e tutto distrugge; c’è l’apocalisse che invade con i suoi angeli oscuri ogni via e piazza di una delle città più belle del mondo; c’è un fiume in piena che rompe gli argini, valanghe di fango che si abbattono su palazzi, chiese, musei, monumenti. E sconvolge le vite di tanta gente.

Il Ponte Vecchio diventa una diga presa prima a schiaffi poi a pugni dalla violenza della corrente. L’Arno è un diavolo scatenato e porta con sé la furia accumulata in chilometri e chilometri di discesa verso la città.

L’avevano previsto, lo avevano sottovalutato; sembra, addirittura, che da Roma fosse arrivato un invito a non allarmarsi da parte delle “competenti autorità”.

Intanto a Cortenova, quattrocento chilometri più a nord, adesso sanno. Adesso sappiamo. Non abbiamo più niente, non possiamo tornare a casa, non potremo più tornarci.

Il grande negozio viene sommerso dalle acque e dal fango; c’è un’esplosione, sopra muore un signore di ottant’anni, tragedia nella tragedia, incubo nell’incubo, strazio nello strazio, il mondo crolla e puoi solo assistere senza mettere mano alla sceneggiatura. Sei solo una comparsa e non hai diritto nemmeno al tuo nome nei titoli di coda.

Risultati immagini per alluvione firenze 1966

Gli ultimi compiti, l’Autostrada del Sole, il Mario, la cucina di via Scipione Ammirato al settantaquattro, la scuola elementare Giotto, il mio compagno di banco Marco Marsili, l’asilo e le suore, il profumo di frittata proveniente da un seminterrato che annusavo al ritorno da scuola e, chissà in virtù di quale memoria, qualche volta mi sembra di sentire ancora vagare nell’aria.

Tutto finito. Raso al suolo. Avevamo disceso con orgogliosa sicurezza le valli, ed ora sperimentavamo il disordine dell’incertezza e la vertigine del vuoto. Eravamo profughi, sia pure con un tetto sopra la testa e senza aver attraversato acque impietose, pur essendo stati egualmente inghiottiti dalle loro onde crudeli; eravamo rifugiati, reduci da una guerra che non avevamo visto e, comunque, non avremmo potuto né combattere né tantomeno vincere.

Niente sarebbe stato più come prima. E, infatti, niente lo è più stato.

Poi la vita ha preso altre strade perché le dodici lettere fanno parte di una storia ma non devono essere mai la storia, che sia un ponte, un cavalcavia oppure l’acqua dove sono annegati, cinquant’anni fa, i sogni di una vita.

Anzi, di tante vite.

Buona domenica.

BENEDETTI TESTINA
Riccardo

Benedetti

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