IMPRESA ANNOVAZZI: IN VETTA AL NANGA PARBAT A 64 ANNI SENZA OSSIGENO



PRIMALUNA – Nuova impresa di Valerio Annovazzi, 64enne di Primaluna originario della bergamasca che, senza ossigeno, è salito in vetta alla nona montagna più alta del mondo, il Nanga Parbat. Una prodezza titanica, tenendo soprattutto conto della difficoltà di raggiungere la celebre cima pachistana, considerata nella top three della montagne più ostiche sulla Terra. Si tratta del quinto 8mila per l’alpinista, che in passato aveva già raggiunto le vette di Cho Oyu, Manaslu, Gasherbrum II, Broad Peak.

Una salita complicata, macchiata dalla tragedia della morte dell’alpinista polacco Pawel Kope? lungo la via per la cima. Nel gruppo di Annovazzi c’erano anche Mario Vielmo, Nicola Bonaiti, l’argentino Juan Pablo Toro e il portatore d’alta quota pakistano Muhammad Hussain, che, non con pochi sforzi, hanno tutti raggiunto l’obiettivo. E l’hanno fatto nel modo più difficile, senza ossigeno, il che ha comportato la decisione di piazzare un quarto accampamento extra a 7400 metri dove riposare e riprendersi prima della salita finale.

E, stando ai racconti dei protagonisti, è qui che si è verificata la fase forse più complicata della spedizione. In cinque in una tenda da tre (l’altra si è rotta), con poca acqua e tanto vento a complicare il tutto. Qui la terribile notizia di un alpinista in difficoltà, come spiega Vielmo: “A un certo punto un polacco si avvicina alla nostra tenda dicendoci che Pawel, in discesa ancora dalla vetta si sente male e ha bisogno di aiuto, è in edema. Gli offriamo il desametasone, che però ci dicono avergli già somministrato. Avrebbe bisogno di ossigeno, ma nessuno di noi lo ha. Più tardi ci chiedono di andare ad aiutare per portare Pawel in tenda. Noi non abbiamo posto in tenda ma ci prepariamo comunque con fatica per uscire. È però troppo tardi. Il primo a uscire è Muhammed che torna poco dopo. Pawel non ce l’ha fatta. Poi ci racconteranno che Pawel era in edema ancora dalla cima. L’unica cosa che avrebbe potuto, forse, salvarlo, sarebbe stato dell’ossigeno supplementare che solo gli sherpa a campo 3 avevano”.

“Provati, stanchi e disidratati, schiacciati nella tenda, vogliamo solo scendere. E così alle prime luci dell’alba iniziamo a prepararci – continua -. È stato complicato, ci abbiamo messo 2 ore per riuscire in cinque, uno a uno, a vestirci, calzare gli scarponi, quindi liberare la tenda dalla neve depositata durante la notte. Persino gli absidi erano pieni di neve. Quando siamo usciti, dopo un po’ ci siamo guardati e ci siamo fatti coraggio. Essere in cinque a fare gruppo dall’inizio della spedizione ci ha aiutato. Al limite, ci siamo detti “siamo qui, facciamo un tentativo e se non va torniamo indietro””.

Il finale già lo conosciamo. Ennesima impresa per Valerio Annovazzi che, con due infarti alle spalle e un salvataggio miracoloso sul Gasherbrum II, avrebbe tanto da insegnare.

RedPri

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