ANDREA RUPANI, ANCORA UN RICORDO: “ORA BOBBIO HA INCISO IL TUO NOME”



Non ti vedevo da vent’anni forse.
Sapevo però, come lo sapevano tutti, che se si voleva trovarti si andava a colpo sicuro, su là sopra la funivia di Bobbio, tra il cielo, le rocce e la neve.
Dentro quel Rifugio che mi dicono tutti essere IL Rifugio. Però io, le montagne, le guardo solo dal basso,cioè l’opposto tuo che sei roccia, neve, sei montagna.
Sei spazio aperto, ossigenopuro.

Tu l’Andrea di Bobbio, già di Bobbio come i principi nobili, quei signori delle contee che hanno il cognome della loro terra, della loro contea, della loro casa.
E casa tua è sempre stata Bobbio.

Non ci si vedeva da vent’anni, dopo tutti quegli anni di scuola assieme, a Introbio.
Non ci si vedeva da vent’anni e un lunedì apro il computer e su Valsassinanews leggo quella notizia lì, quelle notizie che ti fan rimanere sospeso nel vuoto peggio di quei salti sugli sci che ti rimane il fiato dentro la gola e non va ne su ne giù.

Mi sveglio la mattina dopo e mi accorgo che ho addosso subito il pensiero di una tristezza infinita. Non ti vedevo da vent’anni ma sei il primo pensiero, con quel magone che mi lascia così, vuoto e incredulo.
Tu luce, roccia, sole caldo e allegria.
Tu a otto anni che guidavi la jeep e tuo papà quell’uomo buono come te, tu buono come lui, già dal viso, dal sorriso, che imprecava in dialetto “sel’ ciapi”.

E tu che hai imparato prima a sciare e poi a camminare.
Le piste nere, i capelli ricci, sempre la berretta e quell’abbronzatura da sciatori, con il bianco della neve intorno agli occhi.
E la tua mamma Rosi che ti vestiva di rosso per poterti vedere da lontano in mezzo alla neve perché eri ancora un bimbo ma gli sci li sapevi usare da grande.
Andrea tu e quella tua jeep, che non mi ricordo se era veramente verde, sui quei gradoni della chiesa di Introbio quando avevamo una manciata d’anni, tu di patente io di paura a farli a piedi.

I compiti assieme, a volte, e le tue gare di sci.
Non ti ho visto una volta non abbronzato, poche, poche, pochissime volte non sorridente, sempre disponibile, sempre in movimento, quelle falcate che sanno di montagna, di vita da masticare.
Anche gli anni dopo.

È da vent’anni che non ci si vedeva.
Io già troppo in alto stando sulla riva del lago, tu sempre più Signore di Bobbio.
“Io scendo all’indietro dallo Scellera” mi dicevi quando con il Rino Selva, il Marco Paroli e l’Alberto Scuri si facevano le classifiche all’Oratorio.
Io manco sapevo cos’era lo Orscellera ma sugli sci ti teneva testa solo il Giampaolo Ferrari, a volte.
A pallone però eri uno scarpone. Io e il Rino delle potenze. Più il Rino ma fa nulla, mica è importante.

Mi ricordo quando da piccolo, seconda elementare son venuto su a dormire in rifugio dal tuo papà, dovevamo restare con mia sorella tre giorni.
Il camino, il piazzale, il laghetto lì sotto ghiacciato che ci abbiam camminato sopra.
E io che volevo la mia mamma e ho dormito solo una notte poi il tuo papà, mi ha dovuto portare a Introbio.
Quell’omone immenso di bontà che aveva gli occhi lucidi la sera perché la funivia era chiusa ed era troppo buio per portarmi giù subito e io piangevo forse come ora.
E tu la mattina sulla jeep con me e lui. Guidava lui, quella volta.
Che pasticcio è la vita.

E oggi, adesso come non pensare a tutti i beneficiari dei tuoi sorrisi, delle tue strette di mano forti, a quell’azzurro cielo di montagna della tua Gegia.

E a lei posso dirle che i vuoti lasciati dalle persone più care e più d’esempio della nostra vita sono vuoti fisici, di abbracci che non potranno chiudersi più dentro spalle grandi,di parole che non possono più diventare dialoghi; ma sono vuoti che come zaini sulle spalle portano insieme al peso pesante, immensamente pesante della perdita, anche il sostegno del ricordo, del tempo che si è condiviso; immensa dolcezza del pensiero che si fa ricordo di ogni singolo momento, quel momento che fa malinconia e nello stesso tempo ti strappa un sorriso perché sei quello che sei anche per quei momenti.

E il vuoto fuori, incolmabile, è dolcezza e ricordo che ti si propaga dentro, dal cuore in ogni angolo dei pensieri, sottopelle.
È il tuo Andrea, il papà dei tuoi ragazzi, dei tuoi figli. Una cosa sola.

Se avesse potuto sarebbe restato.

Ora Bobbio ha inciso il tuo nome caro dolcissimo Andrea ma non solo sulla neve, nelle mani, negli occhi, nei passi e nei pensieri di chi è arrivato fin lassù sopra le nuvole.
Ora sei salito ancor più su, su cime più alte, oltre il dolore.
Noi ti si guarda da qui, dentro ogni raggio di sole che carezza le tue montagne e il nostro ricordo.
Ti si vuole bene Andrea, davvero.

Paolo, un tuo compagno di classe

 

 

 

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